Gli economisti identificano con il termine start-up una nuova impresa nelle forme di un'organizzazione temporanea o una società di capitali, in cerca di un modello di business ripetibile e scalabile.
Inizialmente il termine veniva usato solo per start-up operanti nel settore Internet o tecnologie dell'informazione. Oggi è invece sempre più frequente trovare bandi e iniziative a favore di start-up di qualsiasi settore, inclusi anche i tradizionali esercizi commerciali.
A dare una prima definizione ufficiale è stato il decreto-legge n. 179/2012 (convertito in legge n. 221/2012) che ha definito la “start-up innovativa” come una società di capitali con i seguenti requisiti:
- società di capitali costituita da non più di 48 mesi con sede in Italia;
- non quotata e non costituita da una fusione, scissione societaria o a seguito di cessione di azienda o di ramo di azienda;
- valore della produzione annuo non superiore a 5 milioni di euro;
- non deve distribuire utili;
- l’oggetto sociale prevalente deve prevedere lo sviluppo, la produzione o commercializzazione di prodotti o servizi innovativi ad elevato valore tecnologico;
l’impresa deve possedere almeno uno dei seguenti requisiti:
- costi in ricerca e sviluppo pari almeno al 15% del maggiore valore tra costo e valore della produzione;
- almeno 1/3 del personale con esperienza pluriennale di ricerca o dottorato (o in alternativa i 2/3 del personale in possesso di laurea magistrale);
- titolare di almeno una privativa industriale (brevetto, licenze, etc).
Come mai lo Stato ha formulato una norma tanto specifica? In primo luogo perché le imprese con queste caratteristiche possono concorrere all'equity crowdfunding. Inoltre perché possono godere di particolari agevolazioni e concorrere a bandi dedicati (il più noto è stato sinora Smart&Start, gestito da Invitalia).
Questa definizione non ha però esaurito le nostre esigenze semantiche, per cui oggi chiamiamo start-up sia un’idea progettuale di uno studente universitario che una milionaria società di capitali quotata in borsa. In nessuno di questi casi per la legge italiana siamo di fronte ad una “start-up innovativa”.
Un'analoga ambiguità risulta evidente anche rispetto agli “incubatori tecnologici”, solitamente connessi al fenomeno delle start-up. Cresciuti come funghi in tutta Italia negli ultimi anni, il fenomeno non sembra ancora arrestarsi grazie soprattutto ad un mercato alimentato da contributi pubblici erogati non solo alle start-up, ma anche agli incubatori stessi. È importante distinguere in questo caso le strutture che mettono a disposizione semplicemente degli spazi attrezzati e qualche servizio aggiuntivo (avvicinandosi in tal senso più che altro al co-working) da quelle che offrono anche finanziamenti e servizi di ricerca mirata di investitori e business angels.
Un altro fenomeno emergente (e forse già abusato) è quello dei concorsi per start-up, spesso promossi direttamente dagli incubatori. Anche qui, è importante saper distinguere fra i programmi che erogano “soldi veri”, da quelli che mettono semplicemente a disposizione una serie di risorse (strumenti e servizi) senza però erogare direttamente contributi a fondo perduto. Ovviamente si tratta di scelte più che legittime da parte dell'ente finanziatore, ma è bene esserne consapevoli per non crearsi false illusioni.